Il ciclo Haydn dedicato alla memoria di H.C. Robbins Landon

Gli Amici della Musica di Padova e il Quartetto Auryn dedicano il secondo ciclo dell’intergrale dei quartetti di Joseph Haydn al ricordo di Howard Chandler Robbins Landon, l’eminente studioso haydniano recentemente scomparso il 20 novembre 2009.

Nato a Boston nel 1926 e trasferitosi in Europa nel secondo dopoguerra, Robbins Landon fondò nel 1949 la Haydn Society iniziando la pubblicazione delle opere complete di Haydn: fra queste, la prima edizione di tutte le sinfonie e quella dei quartetti per archi. I suoi studi musicologici culminarono nei cinque volumi di “Haydn, Chronicle and Works” (Thames and Hudson, Londra, 1976–1980).

Un ricordo del 1999 lo lega a Padova dove curò la preparazione dell’incisione de “La Fedeltà Premiata” per Arabesque con l’Orchestra di Padova e del Veneto diretta da David Golub. In quella occasione Carlo De Pirro lo intervistò per “Il Mattino” (il testo integrale dell’intervista è riportato in calce).

Quella Padova che fu negli anni 1770–1780 una delle prime e poche città italiane – con Venezia, Genova, Firenze, Milano – in cui circolò la musica di Haydn, come testimonia, fra l’altro, l’Archivio dei Conti Papafava e la copia manoscritta de “Il ritorno di Tobia” conservata nella biblioteca della Basilica del Santo.

“Quel piccolo angolo nebbioso di terra – Padova, in Italia” al quale si riferisce Beethoven in una lettera del 13 maggio 1816 alla Contessa Anna Marie Erdödy (la dedicataria dei Trii op. 70 e delle Sonate op. 102): un nome che evoca la famiglia nobiliare ungherese che in momenti diversi incontriamo anche nella vita di Haydn.

Per saperne di più
Visita le pagine dedicate alla figura di H.C. Robbins Landon da Il Giornale della Musica, e dai principali quotidiani britannici e statunitensi (in inglese): The Guardian, Times On Line, Telegraph e New York Times.
Un ampio ritratto dello studioso, corredato da contributi originali degli anni ’60, è tracciato dal magazine Gramophone (in inglese).

Landon, il critico che tolse dalle tenebre dell’oblio Haydn e la sua musica
di Carlo De Pirro

Si dice, per ridurre la storia ad un’aforisma, che Haydn fosse l’ultimo musicista a poter festeggiare il Primo maggio. Altro che i moderni divi “leggeri”, viziati, ribelli per obbligo d’immagine ma dal solido conto in banca. Sentite cosa prescriveva il contratto di assunzione di Haydn presso la corte degli Esterhàzy, vergato per ironia della sorte proprio il Primo maggio del 1761: «Il detto Joseph Haydn sarà considerato un funzionario della casa… sarà sottomesso e saprà che deve trattare i musicisti a lui sottoposti senza arroganza, ma con dolcezza e indulgenza, con modestia, calma e onestà… dovranno presentarsi sempre in uniforme… in ordine con le calze bianche, la camicia bianca, incipriati, con la treccia o con la reticella… avrà l’obbligo di comporre tutta la musica che a Sua Altezza Serenissima il Principe piacerà ordinargli e si guarderà bene dal passare dette composizioni a chichessia e dal farle copiare… il detto si presenterà ogni giorno nell’anti chambre prima e dopo mezzogiorno per informarsi se sua Altezza ha piacere di ordinare all’orchestra un’esecuzione musicale… potrà mangiare alla tavola dei dipendenti e ricevere mezzo Gulden… Sua Altezza è libero di licenziarlo in ogni momento».
Remote umiliazioni, pensando al celebre incrocio tra l’Imperatrice, i duchi austriaci, Goethe e Beethoven. Con Goethe che «si mise da parte col cappello levato» e Beethoven che «passava in mezzo ai duchi toccando solo un poco il cappello, mentre essi si mettevano ai due lati per lasciargli la strada e tutti gentilmente lo salutavano». Si raccontano molte storie: quelle delle civiltà, della politica, delle arti. Questa di Haydn potrebbe appartenere alla sociologia dei lacché, se non dimenticassimo i regali alla storia scaturiti da quel rapporto: il suono che si trasforma nel tempo, l’invenzione del personaggio melodico, la costruzione della forma affidata alla simultaneità di pulsioni differenti. Categorie di un nuovo immaginario, inventate per prime dal linguaggio musicale e di cui i protagonisti del “classicismo” viennese erano ben consci di vendere all’inconscio collettivo.
Come ricorda una lettera di Mozart al padre, a proposito di alcuni concerti per pianoforte e orchestra: «Questi concerti sono proprio una via di mezzo tra i troppo difficile ed il troppo facile: sono molti brillanti, gradevoli all’orecchio senza cadere nella vacuità. In alcuni punti solo gli intenditori possono cavarne diletto, ma faccio in modo che anche i non intenditori restino contenti, pur senza saperne il perché».
Haydn fu l’ultimo grande stipendiato di corte, fedele servitore degli Esterhàzy – tranne una breve parentesi londinese – fino alla morte (1809). La fossa comune in cui fu sepolto Mozart potrebbe essere il macabro simbolo di come il pubblico pagante ora esalti ora dimentichi. Lo stesso vale per le amnesie della storia.
Howard Robbins Landon viene da Boston. Nel 1947 giunse in Europa come corrispondente di giornali e periodici americani. Fra le sue mete l’Austria, nazione che ostentava la quasi totale indifferenza per l’opera di Haydn.
Presto fatto. Landon fonda nel 1949 la Haydn Society, iniziando un’opera di ricognizione critica che si concretizzò, tra il 1976 ed il 1980, nei cinque volumi di “Haydn: Chronicle and Works”. Senza mai disdegnare il sostegno militante alla diffusione discografica. Il cui ultimo capitolo passa per Padova, al seguito de “La fedeltà premiata”, dramma pastorale giocoso in 3 atti. In questa incisione si riforma la stessa squadra (David Golub a dirigere l’Orchestra di Padova e del Veneto, in una produzione dell’americana Arabesque) che ha di recente licenziato il cd di altri due lavori teatrali, “L’isola disabitata” e “Arianna a Naxos”.
Allo studioso americano domandiamo quale fosse la ricezione di Haydn nel dopoguerra. «Il problema principale – spiega Landon – era che il novanta per cento di ciò che aveva scritto non era né edito né inciso. Non bastava una semplice edizione scientifica, piuttosto convicere gli editori che queste partiture si potevano anche vendere. Iniziarono presto anche i contatti con gli interpreti. Il primo che ci aiutò fu Carlo Maria Giulini con cui mettemmo in scena al Festival d’Olanda nel 1959 “Il mondo della Luna” (su libretto di Goldoni). Poi Antal Dorati suggerì l’incisione del repertorio sinfonico. La Decca credette di cautelarsi proponendo royalty solo dopo diecimila copie vendute, ed invece chi stese il contratto si diede del cretino quando il primo disco (e anche i successivi) ne vendette un milione. Non bisogna dimenticare che quella del ‘700 era allora una lingua dimenticata. Tutto iniziò proprio nel dopoguerra con la rinascita di Vivaldi. In quell’interpretazione con eleganza, con sentimento (ma non sentimentale) e delicatezza. Questo ha cambiato la storia».
Che consigli ha dato durante l’incisione padovana?
«Con Golub si è discusso solo prima di iniziare. Qualche suggerimento sui pizzicati, su di un particolare effetto di corno, poi rivelatosi di modernità mahleriana, l’inserimento di una pagina inedita, grazie ad un manoscritto recuperato di recente a Locarno. Poi tutto ha funzionato alla perfezione: qualità degli archi, qualità degli strumenti usati, un vibrato con discrezione, e una disciplina “intelligente”, quel suonare più volte lo stesso passo senza perdere lo spirito iniziale. Si sentiva durante le prove la stessa umanità che ispirava Haydn. La stessa che ritrovo sempre in Italia, quando anche bellissime signorine si preoccupano di aiutare me, vecchio pensionato musicale, se devo fare qualche scalino».
Come potrebbe definire l’arte operistica di Haydn?
«Questa è musica graziosa e intellettuale al tempo stesso. Una combinazione di bellezza e cervello, matrimonio fra la vocalità italiana e la nuova scuola sinfonica viennese. Per questo allora era il musicista più popolare e celebrato al mondo».
Cosa rappresentava la musica per una corte come quella del Principe Nicolaus Esterhàzy?
«Allora qualunque membro dell’aristocrazia cantava o suonava. Perciò i successi di un compositore rendevano immenso prestigio alla corte. Altri tempi: oggi chi gestisce il potere non ha la minima idea dell’arte».
Come giudica l’attuale livello interpretativo?
«La qualità dei dischi oggi è incredibile, e questo ha molto educato i gusti del pubblico. Perfino l’Orchestra Filarmonica di Vienna è regolarmente massacrata dalla critica ogni volta che giunge in Inghilterra. Dove oggi si interpreta il “classicismo” con strumenti critici più coscienti e musicali. In questi cinquant’anni ho sentito con i miei orecchi una rivoluzione, per fortuna senza morti. E’ morto solo il gusto di seconda classe».

Il Mattino di Padova, 5 novembre 1999